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Giudicare Putin, il deficit tedesco, l'Europa che si riarma,Draghi bis, Elodie fatale |
|  | di Alessandro Trocino |
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| Non passi l'invasore Con Trump e Putin che si stanno mettendo d'accordo sull'Ucraina, non è il momento peggiore per riparlare di un Tribunale speciale per il crimine di aggressione? E se fosse, invece, il momento migliore?
Il Whatever it takes tedesco La Germania ha approvato un piano di investimenti da mille miliardi, buona parte in deficit, che sarebbe stato impensabile fino a pochi anni fa. Elena spiega cosa comporta e perché è il segno che il mondo come lo conoscevamo non esiste più. L'Europa armata Massimo Nava racconta nel dettaglio la grande campagna di riarmo europeo, e mondiale, che è già partita da tempo. Con grandi affari per le industrie del settore e pericoli evidenti per la pace del mondo. Draghi bis? L'ex presidente della Bce Mario Draghi è tornato in Parlamento. Per ora, da consulente europeo. Ma siamo sicuri che debba restare tale o non si possano aprire invece prospettive per un Draghi bis a Palazzo Chigi o per un ruolo importante in Europa? Vediamo. La Cinebussola Basta un'Elodie femme fatale a fare di «Giochi pericolosi» un bel film? Ce lo dice, come sempre, Paolo Baldini. Se vi va, scriveteci.
Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it Luca Angelini langelini@rcs.it Elena Tebano etebano@rcs.it Alessandro Trocino atrocino@rcs.it | |
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| Rassegna della guerra | È il momento peggiore per un tribunale speciale sull'invasione russa. Anzi, il migliore | |
 | Luca Angelini
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| | La telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin sull'Ucraina (con il sì russo a 30 giorni di tregua ma soltanto riguardo agli attacchi alle infrastrutture energetiche), magari non è andata proprio come aveva pronosticato David E. Sanger, sul New York Times, ma non è inverosimile che l'esito finale del percorso sarà comunque quello: «In sostanza, Trump negozierà l'entità della ricompensa che la Russia riceverà per i suoi 11 anni di aggressione aperta contro l'Ucraina, a partire dall'annessione della Crimea nel 2014 fino alla guerra su larga scala iniziata da Putin tre anni fa. I collaboratori della Casa Bianca hanno chiarito che la Russia manterrà certamente la Crimea - per uno di quegli strani intrecci della storia, il luogo in cui si svolse la Conferenza di Yalta nel febbraio 1945 - e hanno suggerito con forza che otterrà quasi tutto il territorio che detiene». E sarà anche vero che, sondaggio di Nando Pagnoncelli alla mano, «la maggioranza assoluta (57%) degli elettori italiani non sostiene né l’uno né l’altro dei Paesi belligeranti. Un terzo circa parteggia per l’Ucraina, l’11% invece per la Russia. Se guardiamo ai dati di lungo periodo vediamo un netto calo del sostegno all’Ucraina: era il 57% all’inizio del conflitto, è il 32% attualmente. E se non cambia sostanzialmente il sostegno alla Russia, cresce nettamente l’equidistanza: dal 38% del 2022 al 57% di oggi». Ma Anna Zafesova, sulla Stampa, si permette comunque di ricordare qualche verità, sulle responsabilità della guerra in Ucraina, che adesso sembra diventata scomoda o inopportuna.
Gli Usa, ad esempio, avevano dato vita, nel 2022, al WarCAT, un team che aveva come scopo chiamare i russi a rispondere dei crimini di guerra. «Non solo reati contro il diritto internazionale quindi, come l'aggressione militare e la violazione della sovranità dell'Ucraina, ma crimini contro i civili, come la strage di Bucha (e in tante altre città ucraine finite sotto l'occupazione russa), le torture, le violenze e i rapimenti». Ebbene, secondo il New York Times, l'amministrazione repubblicana ha dato l'ordine di ridurre l'impegno del WarCAT. «Quando il WarCAT era stato fondato - ricorda Zafesova - il procuratore generale statunitense dell'epoca, Merrick B. Garland, aveva promesso che "non ci sarà un posto dove i criminali di guerra potranno nascondersi se hanno commesso atrocità in Ucraina". I magistrati americani avevano garantito, sia direttamente sia con perizie, aiuto logistico e addestramento, la giustizia ucraina. Ora, il loro impegno verrà ridotto, con la solita scusa della "necessità di rivedere l'impiego delle risorse", utilizzata in tutti i tagli ordinati dall'amministrazione Trump, inclusa la decisione, di qualche giorno fa, di cancellare i finanziamenti per il team americano impegnato nella ricerca dei minori ucraini deportati in Russia. Poi è arrivata la decisione di chiudere Radio Liberty, fondamentale risorsa di informazione in Russia e molti Paesi ex sovietici, e infine il gesto dimostrativo di sfilarsi dagli organismi di giustizia internazionale che vorrebbero portare Putin all'Aia (in particolare dall'International Center for the Prosecution of the Crime of Aggression against Ukraine, ndr). Per Washington, Putin non è più un criminale: un messaggio che va ad aggiungersi ai numerosi lanciati da Trump a indirizzo del dittatore russo, al quale continua ad aprire crediti di fiducia nella speranza di persuaderlo alla tregua». Come sottolinea Zafesova, «gli Stati Uniti erano l'unico Paese non europeo ad aver inviato all'Aia un procuratore speciale che collaborava nelle indagini con gli investigatori ucraini e di varie nazioni dell'Unione Europea, insieme alla Corte penale internazionale (che ha già incriminato Putin per la deportazione dei bambini ucraini in Russia). I lavori del team europeo ovviamente proseguiranno, ma è un segnale importante che la Casa Bianca manda a Putin: a differenza di Joe Biden, non lo considera un "killer", né un nemico del mondo libero». I realisti diranno che il fine - far tacere le armi - giustifica i mezzi e i modi (anche se quel fine sarà il primo passo verso la «ricompensa» a Putin per l'invasione?). E che ha ragione Trump a dire che non può parlar male di Putin e poi andarci a trattare. Del resto, anche lo «zar» del Cremlino ha mostrato qualche cortesia per l'interlocutore privilegiato: ieri ha esonerato, con un decreto ad hoc, alcuni fondi di investimento americani dal divieto di vendere i titoli russi in loro possesso, introdotto dalla Russia per le entità finanziarie dei «Paesi ostili», cioè occidentali. Sarebbe, però, un azzardo pensare che quei mezzi e quei modi non avranno conseguenze. E non soltanto per l'Ucraina, oggi, e altri Paesi europei, domani. In un intervento su Politico Europe, Fredrik Wesslau, dello Stockholm Centre for Eastern European Studies ed ex presidente di The Reckoning Project, scrive: «L'attuale amministrazione statunitense è ostile alla giustizia internazionale e ha agito di conseguenza. Per esempio, ha imposto dure sanzioni contro la Corte penale internazionale per le sue indagini su esponenti israeliani. Tali sanzioni stanno ostacolando anche la capacità della Corte di indagare sui crimini di guerra in Ucraina e altrove. Pertanto, nel negoziare un accordo di pace per l'Ucraina, non possiamo scartare la possibilità che Trump si spinga oltre e accetti una clausola di amnistia per il presidente russo Vladimir Putin e per altri funzionari del Cremlino e alti ufficiali militari coinvolti nella guerra. Una mossa del genere sarebbe coerente con la visione del mondo del leader statunitense - quella del diritto del più forte (might makes right) - e in linea con la sua ammirazione per Putin. Non c'è dubbio che una clausola di amnistia per gravi crimini internazionali violerebbe il diritto internazionale. Ma nel forzare l'Ucraina e l'Europa ad accettare un accordo, Trump potrebbe chiedere loro di abbandonare le cause contro i sospetti crimini di guerra russi e di interrompere altri sforzi per far rispondere di quanto commesso. Una simile concessione si farebbe beffe del diritto internazionale. Inoltre, rafforzerebbe la visione del mondo secondo cui le grandi potenze possono agire impunemente nei confronti dei loro vicini, aprendo la porta ad altri autocrati per impadronirsi del territorio altrui senza conseguenze». I realisti di cui sopra, però, obietterebbero che l'obiettivo di Trump è, in realtà, di staccare Mosca da Pechino, indebolendo così l'asse delle «potenze revisioniste». Però, un commentatore conservatore come Walter Russell Mead scrive, sul Wall Street Journal di oggi: «La Cina non ha intenzione di fare la brava. Dal punto di vista cinese, il potere americano è in rapida ritirata. Le nostre alleanze si stanno sfilacciando, la nostra coesione sociale si sta indebolendo e, per come la vede Pechino, lo stile di leadership apparentemente impulsivo del presidente Trump, pur essendo in grado di produrre occasionalmente qualche sorpresa sgradita, è dilettantesco e destinato a fallire. Il Team Trump vuole rompere l'allineamento tra Cina, Russia e Iran intimidendo l'Iran e seducendo Vladimir Putin. La Cina userà ogni risorsa possibile per mantenere l'asse unito e per far sì che i suoi sodali revisionisti si oppongano alla posizione internazionale dell'America. I costanti progressi della Cina verso obiettivi chiave nell'Indo-Pacifico ricordano a Russia e Iran i limiti del potere americano e incoraggeranno i revisionisti di tutto il mondo a mantenere la rotta». A proposito di realismo, Wesslau non è tanto ingenuo da non sapere che «con un cattivo accordo di pace per l'Ucraina forse all'orizzonte, chiamare la Russia a rispondere dei crimini di guerra sembra una prospettiva più lontana che in qualsiasi altro momento dall'inizio dell'invasione». Eppure, aggiunge, «quella chiamata a rispondere non è mai stata così importante come ora, non solo per l'Ucraina ma anche per l'Europa». E, nonostante l'idiosincrasia di Trump per gli organismi internazionali, anzi proprio per quello, ritiene urgente tradurre in pratica la promessa creazione di un Tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l'Ucraina. Il tribunale, spiega Wesslau, sarebbe incaricato di indagare i massimi dirigenti russi per il loro ruolo nella preparazione e nel via alla guerra di aggressione contro l'Ucraina. Verrebbe creato dal Consiglio d'Europa e si baserebbe su un trattato tra esso e l'Ucraina, attingendo a una combinazione di giurisdizione territoriale ucraina e diritto internazionale. «Un tribunale di questo tipo sarebbe prezioso non solo per i procedimenti giudiziari, ma anche perché le sue azioni - le incriminazioni, in particolare - fisserebbero il dato storico di come la guerra è iniziata e di chi c'era dietro, proprio come i processi di Norimberga hanno fatto per la Seconda Guerra Mondiale. Per quanto riguarda la tempistica, istituire il tribunale ora, prima di qualsiasi serio negoziato di pace, aiuterebbe a mettere al riparo qualsiasi tentativo di ridurre le responsabilità. Inoltre, una volta istituito, il tribunale assumerebbe vita propria, operando in larga misura al di là delle contrattazioni politiche, rendendo virtualmente impossibile la sua chiusura. In tali circostanze, una clausola di amnistia per i leader russi in un accordo di pace non avrebbe molto significato, poiché il tribunale avrebbe ancora la giurisdizione per operare. Se l'Europa aspetta l'inizio dei negoziati di pace, invece, c'è il rischio che il tribunale venga sacrificato nell'ambito dei negoziati. E dal punto di vista politico, sarebbe molto più difficile istituirlo dopo che un accordo di pace - soprattutto se include una clausola di amnistia - è già stato concordato». Wesslau aggiunge un passaggio in più: «Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, l'istituzione del tribunale speciale ha assunto un significato ancora maggiore. Le sue dichiarazioni secondo cui gli Stati Uniti otterranno la Groenlandia “in un modo o nell'altro”, o faranno del Canada il 51° Stato, devono essere prese sul serio. Pertanto, istituire ora il tribunale speciale sarebbe un segnale forte per gli uomini forti di tutto il mondo, dimostrando che i Paesi non accetteranno invasioni e annessioni e che la giustizia internazionale può trovare il modo di rendere i leader responsabili dei crimini di aggressione, chiunque essi siano». Può ben darsi che i tribunali internazionali servano a poco, soprattutto se gli Stati nazionali poi non collaborano (ne sappiamo qualcosa anche in Italia). O che possano costituire un ostacolo, magari pretestuoso, alle trattative. C'è stato, però, un tempo in cui si sapeva con certezza chi aveva invaso chi, nonostante avesse giurato e spergiurato che non l'avrebbe mai fatto (e che era un'intollerabile offesa pensare il contrario). Forse è meglio evitare che arrivi il tempo di rimpiangere d'averlo dimenticato. | |
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| Rassegna europea | Il Whatever It Takes tedesco | |
 | Elena Tebano
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| | Lo hanno già definito il «voto più caro di tutti i tempi» o, più favorevolmente, il «bazooka fiscale» e «il Whatever It Takes tedesco», parafrasando l’impegno finanziario di Mario Draghi per l’Unione europea. È l’approvazione, con 513 sì e 207 no, del piano di spesa da mille miliardi di euro voluto dal futuro cancelliere conservatore Friedrich Merz (Cdu) insieme ai socialdemocratici della Spd e con l’appoggio dei Verdi. Rappresenta una svolta epocale per la Germania, non solo perché include un programma di riarmo senza precedenti, ma perché riforma il cosiddetto freno al debito della Costituzione, la regola che impediva ai governi tedeschi di fare deficit. Ecco tutto quello che c’è da sapere. Il voto con il vecchio parlamento Il piano è stato approvato dal parlamento uscente, che si è riunito per l’ultima volta. Questo perché, richiedendo una modifica costituzionale (l’eliminazione dei limiti per il deficit statale), aveva bisogno di una maggioranza di due terzi. Con questo parlamento i partiti a favore del piano, e cioè l’Unione cristiano democratica (Cdu/Csu), i socialdemocratici (Spd) e i Verdi (Grüne), avevano complessivamente 520 seggi su 733 legislatori, 31 in più di quelli necessari per ottenere una maggioranza di due terzi. Per questo sono riusciti ad approvarlo nonostante ci siano stati alcuni deputati uscenti dei tre partiti che hanno votato contro. Nel prossimo parlamento, che si insedia tra una settimana, il 25 marzo, non ce l’avrebbero fatta, visto che la Spd e i Verdi hanno perso seggi mentre ne hanno guadagnati il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (Afd, diventato il secondo partito tedesco) che difende il cosiddetto «freno al debito», e la Sinistra (Linke), che vi si oppone ma è contraria all’aumento delle spese militari. Il fatto che il piano sia stato approvato dal parlamento uscente dà modo alla Afd di ripetere che i partiti tradizionali sono contrari alla “vera” democrazia, uno dei suoi cavalli di battaglia in campagna elettorale. I critici, anche all’interno del suo stesso partito, accusano Merz di «frode elettorale» per aver promesso un contenimento delle spese durante la campagna elettorale per poi annunciare il cambiamento della politica fiscale solo pochi giorni dopo la vittoria. «Il bene più grande di un politico è la credibilità», ha detto durante il dibattito in parlamento Tino Chrupalla, co-leader di Afd. «Con queste azioni imbarazzanti, signor Merz, lei ha già completamente sprecato la sua. Gli elettori si sentono traditi da lei, e a ragione». Intanto sono in corso le trattative tra Cdu (il primo partito del prossimo parlamento) e Spd (il terzo in ordine di grandezza) per formare un nuovo governo sotto la guida del conservatore Merz. Cosa prevede il piano Il piano di Cdu e Spd prevede nel complesso investimenti per mille miliardi di euro. La metà, 500 miliardi di euro in 12 anni, andranno al fondo per le infrastrutture (energia e reti elettriche, digitale, ospedali, strade, scuole etc.) dei quali 100 miliardi riservati a investimenti per la transizione climatica: questi ultimi sono la condizione chiesta dai Verdi per votare il piano e la modifica costituzionale sul debito. Ogni Land, cioè ciascuno dei 16 stati federali della Germania, sarà autorizzato a gestire un piccolo deficit strutturale dello 0,35% del proprio Pil, come può fare il governo federale, ottenendo così 16 miliardi di euro in più di spesa (saranno gestiti dai Land anche 100 miliardi del fondo per le infrastrutture). La spesa per la difesa Inoltre il governo potrà spendere ogni anno per la difesa fino al 3% del Pil (circa 129 miliardi di euro all’anno) facendo nuovo debito che non ricadrà più nei limiti del tradizionale «freno al debito», la cosiddetta Schuldenbremse, che limita i prestiti pubblici allo 0,35% del prodotto interno lordo. Nelle spese per la difesa esentate dai limiti sul deficit entreranno voci piuttosto ampie: oltre a quella per le forze armate e gli armamenti, anche la cybersicurezza, l’intelligence, e il sostegno all’Ucraina (a cui dovrebbero andare 3 miliardi di euro di aiuti militari). «Per il 2025, questo darebbe alla Cdu/Csu e alla Spd un margine di manovra aggiuntivo di 18,76 miliardi di euro nel bilancio, secondo una compilazione delle stime di bilancio del responsabile del bilancio della Fdp Otto Fricke. Entro il 2028, il margine di manovra ammonterebbe a 67,43 miliardi di euro se si ipotizzano sette miliardi di euro all’anno come aiuti militari per l’Ucraina»spiega Zdf Heute. I prossimi passaggi Il Whatever It Takes tedesco non è ancora definitivo, anche se con l’approvazione del Parlamento federale ha superato l’ostacolo più importante. Venerdì sarà esaminato anche dalla Camera alta del Parlamento, che rappresenta i 16 Land della Germania. Anche lì dovrà essere approvato con una maggioranza di due terzi. Dovrebbe riuscirci dopo che il governo della Baviera, guidato dalla Csu (il partito confederato con la Cdu che però è sempre stato ferocemente anti-deficit) ha accettato di sostenere il piano. Le reazioni in Germania «La Cdu/Csu e la Spd hanno vinto oggi il più grande jackpot di tutti i tempi; certo, hanno anche potuto scegliere il vincitore» commenta il tabloid Bild, augurandosi non senza ambiguità che «si tratti di un buon debito, perché altrimenti avremmo reso più poveri i nostri figli e nipoti». Più netto il giudizio della Süddeutsche Zeitung: «L’approccio di Merz di osare una grande svolta proprio all’inizio del periodo elettorale è quello giusto. Si potrebbe anche dire che non ci sono alternative» scrive il quotidiano bavarese, che definisce «sbagliato affermare che le generazioni future saranno gravate da oneri irragionevoli perché gli investimenti aggiuntivi saranno finanziati tramite prestiti». E questo perché «contrariamente a quanto si crede, il debito pubblico non deve essere rimborsato. Viene trasmesso di generazione in generazione e quindi si differenzia in modo sostanziale dai debiti privati. Anche se può essere difficile da capire per i non addetti ai lavori, l’aumento costante del debito nazionale - a parte gli anni eccezionali - non è un problema finché la produzione economica cresce a un tasso simile e l’onere degli interessi, che è sostenuto congiuntamente dalle generazioni attuali e future, rimane gestibile». Sono parole impensabili fino a pochi anni fa, quando la Germania seguiva pedissequamente il mantra del pareggio di bilancio dell’allora ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. E mostrano bene l’eccezionalità dei tempi che stiamo vivendo. Prima ancora di entrare in carica il conservatore Merz è riuscito a fare (in nome della «sicurezza») quello che si era riproposto di fare, senza successo, il cancelliere uscente Olaf Scholz con la Spd e i Verdi. Il voto di ieri è insieme l’inizio di un nuovo capitolo per la politica tedesca e quindi europea e la dimostrazione definitiva che il mondo come lo conoscevamo non c’è più. | |
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| Rassegna internazionale | La corsa agli armamenti dell'Europa | |
 | Massimo Nava
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| | Ricordate la famosa battuta nel film «Philadelphia», quando l’avvocato invita il cliente: «Mi spieghi come se avessi sei anni»? Ecco, qualcuno dovrebbe chiedere agli adulti decisori di spiegarci, come se avessimo sei anni, la corsa agli armamenti, la moltiplicazione degli investimenti pubblici nella produzione bellica, la grandezza di risorse che «prima» non c’erano per le scuole, la casa, la sanità, il cambio di passo su quelli che «prima» erano tabù, come il limite all'indebitamento degli Stati previsto dai trattati europei, o come il «super tabù» tedesco, già spazzato via da Friedrich Mertz già prima di assumere l’incarico di Cancelliere. Evidentemente, anche il Papa, nella toccante lettera al Corriere contro la guerra e la corsa agli armamenti, ha pensato di parlare ai bambini, visto che gli adulti decisori non ascoltano. Il conservatore Die Welt, in una lunga inchiesta, ci informa sugli affari colossali dell’industria tedesca degli armamenti Rheinmetall, che intanto prevede investimenti senza precedenti nel Vecchio Continente. Il suo amministratore delegato, Armin Papperger, attribuisce questo successo a un'«era di riarmo in Europa» e vuole che l'azienda colmi il ritardo degli europei nella produzione di munizioni, carri armati, artiglieria e difese antiaeree. Nel 2024, il fatturato del produttore di armi renano è balzato di un terzo, raggiungendo il livello record di 9,8 miliardi di euro. Nel frattempo, Friedrich Merz, ha raggiunto un accordo con la Spd che prevede la creazione di un fondo di 500 miliardi di euro per modernizzare le infrastrutture tedesche e una modifica del meccanismo costituzionale che limita il debito al fine di finanziare le spese militari. «Berlino - scrive la Welt - intende allentare il freno all'indebitamento. Una disposizione iscritta nella legge fondamentale, prevista per limitare il deficit di bilancio annuale del governo allo 0,35% del Pil. Con la riforma voluta dai conservatori e dai socialdemocratici, tutte le spese per la difesa che superano la soglia di un punto percentuale del prodotto interno lordo tedesco, pari a circa 45 miliardi di euro, potranno essere votate senza tener conto di questo meccanismo». Per l’azienda, anche il valore delle azioni è raddoppiato nel corso dell'anno, superando i 1.200 euro l'una, e il titolo è cresciuto del 1.150% in tre anni. A questo ritmo, entro il 2030 verrebbero investiti tra i 700 e i 1.000 miliardi di euro nella difesa, solo in Europa. Rheinmetall spera che circa il 40% della spesa riguardi l'acquisto di attrezzature militari: «Entro il 2030, riteniamo che Rheinmetall potrebbe pesare tra i 300 e i 400 miliardi di euro», afferma con entusiasmo Armin Papperger. «Dobbiamo quindi ricominciare subito a investire», conclude l'ingegnere. È quello che Rheinmetall sta già facendo dall'inizio della guerra in Ucraina, a un ritmo sempre più sostenuto. Il produttore vuole diventare il cuore del nuovo settore europeo degli armamenti ed espandersi dove può catturare il flusso di ordini che proviene dai programmi di investimento e dai dispositivi di bilancio eccezionali. In pratica, la Germania si candida ad essere il centro produttivo dell’industria degli armamenti europea, quindi ad assorbire buona parte degli 800 miliardi previsti dal piano «Rearm Europe» lanciato da Ursula von der Leyen. Questo lo capirebbe anche un bambino di sei anni. Gli specialisti avvertono che ci vorranno cinque anni e più perché il settore raggiunga i livelli di produzione richiesti dall'economia di guerra. Intanto la Rheinmetall ha riavviato la produzione di munizioni nelle vecchie officine risalenti alla prima guerra mondiale di Unterlüß, nella landa di Luneburgo. Inoltre ha acquistato fabbriche di munizioni in Spagna, un costruttore di macchine per l'industria chimica in Sudafrica e ha investito nel suo storico sito di Unterlüß per rinnovare i locali e le attrezzature, curando al contempo i rapporti con i fornitori di utensili, prodotti chimici e metalli. L'acciaio viene ora acquistato in Germania anziché in India e l'azienda produce in proprio la polvere. Così Rheinmetall è diventato il primo produttore di munizioni del mondo occidentale. Se nel 2022 poteva produrre solo 70.000 proiettili di artiglieria all'anno, dal 2025 il produttore potrà produrne 1,1 milioni dalle sue fabbriche. Se la Germania si prepara come polmone produttivo, la Francia e la Gran Bretagna (uniche potenze nucleari) si candidano alla leadership strategica, ovviamente anche loro con un occhio ai bilanci. Bilanci con il vento in poppa anche in altre aree del Vecchio Continente e del mondo. Ad esempio, come riporta il Courrier International, i produttori e i commercianti di armi dei Balcani hanno approfittato della guerra in Ucraina. Dal 2022 le esportazioni di armi dalla Serbia sono quadruplicate, raggiungendo circa 800 milioni di euro. Nei primi quattro mesi di quest'anno, la Bosnia-Erzegovina ha esportato quasi il doppio di armi da fuoco e munizioni rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. «La produzione e la vendita di armi sono in piena espansione nei Balcani», sottolinea Jasmin Mujanovic, politologo associato al think tank New Lines Institute. Numerosi ordini provenienti dall'Ucraina hanno rilanciato le fabbriche di munizioni serbe e bosniache che fino a poco tempo fa erano minacciate di fallimento. La Serbia, nonostante la drammatica crisi politica, le piazze in subbuglio e la collocazione nel campo dei filorussi, ha anche allacciato forti legami con la Francia, finalizzando una commessa di aerei Rafale «per un’alleanza a lungo termine». L'Ucraina e i suoi alleati acquistano volentieri munizioni e attrezzature militari nei paesi dei Balcani occidentali. Per diversi motivi: rispondono agli standard della Nato, sono compatibili con il sistema utilizzato dalle forze ucraine e i loro prezzi sono inferiori rispetto ad altri mercati. «La Serbia e la Bosnia-Erzegovina hanno leggi che vietano loro di vendere armi nelle zone di guerra. Tuttavia, ciò non ha impedito loro di inviare armi a Kiev, anche se in modo indiretto, attraverso intermediari. Gli Stati Uniti hanno quindi reindirizzato verso l'Ucraina armi e munizioni acquistate in Bosnia-Erzegovina».Il Financial Times di Londra ha riferito che munizioni prodotte in Serbia, per un valore di 855 milioni di dollari, sono recentemente entrate in Ucraina attraverso la Turchia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Nel 2023 le esportazioni di armi e munizioni della Bosnia-Erzegovina sono state pari a 163 milioni di euro, con un aumento del 26% rispetto all'anno precedente. Il ministro della Difesa Zukan Helez ha recentemente elogiato l'espansione dell'industria nazionale degli armamenti, affermando che le munizioni della Bosnia-Erzegovina, in particolare i razzi e le granate, vengono esportate in tutto il mondo: negli Stati Uniti, nel Medio Oriente e nei paesi dell'Unione Europea. «D'altra parte, Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba (Republika Srpska, una delle due entità che compongono la Bosnia-Erzegovina) e amico di Putin, ha criticato l'esportazione di armi e munizioni bosniache verso l'Ucraina, affermando che si sta adoperando per porvi fine». Croazia, Albania, Montenegro e Macedonia, paesi membri della Nato, hanno trasferito in Ucraina una parte significativa delle loro scorte di vecchie attrezzature sovietiche. «I dirigenti dell'azienda croata Duro Dakovic -riferisce il Courrier International -stanno negoziando con il Kuwait una possibile acquisizione di almeno 100 carri armati kuwaitiani M-84, fabbricati negli anni '90 in Jugoslavia. Dopo la riparazione e l'ammodernamento di questi carri armati nelle officine di Duro Dakovic, la Croazia li donerà all'Ucraina». «La corsa agli armamenti danneggia la sicurezza del pianeta», avverte l'editoriale di Lianhe Zaobao di Singapore. Riprendendo il rapportodell'Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, in Svezia. Quest'ultimo specifica che le spese militari mondiali hanno battuto un record nel 2023 raggiungendo 2.443 miliardi di dollari, ovvero il 6,8% in più rispetto all'anno precedente. L'editoriale sottolinea che si tratta della «crescita più forte dal 2009». I cinque Paesi che spendono di più per le spese militari sono gli stessi del 2022: Stati Uniti, Cina, Russia, India e Arabia Saudita. Se gli Stati Uniti rimangono i campioni del mondo con una spesa che ammonta a 916 miliardi di dollari, la Russia registra l'aumento più forte del suo budget su base annua: + 24% per raggiungere un importo stimato a 109 miliardi di dollari. Seguono Cina (+ 6%), Arabia Saudita (+ 4,3%) e India (+ 4,2%). Nel 2023, nel «Libro bianco sulla difesa», il Giappone ha chiaramente espresso le sue preoccupazioni, ritenendo che questo rafforzamento cinese rappresentasse «la più grande sfida strategica per l'ordine internazionale». L'anno scorso Tokyo ha destinato più di 50 miliardi di dollari alla spesa militare. Per quanto riguarda Taiwan, isola rivendicata dalla Cina come parte integrante del suo territorio, la spesa militare ha raggiunto i 16,6 miliardi di dollari, con un aumento dell'11% rispetto all'anno precedente. Secondo Lianhe Zaobao, questi aumenti riflettono «una situazione internazionale instabile e un clima internazionale in cui il deficit di fiducia reciproca si sta approfondendo». Secondo l'editorialista, questo ha posto fine ai «dividendi» della pace del dopoguerra fredda.Il quotidiano di Singapore punta il dito contro «la corsa agli armamenti» delle grandi potenze. Queste ultime hanno messo il mondo in una situazione pericolosa, costringendo altri Paesi a partecipare a questa corsa. Secondo l'editorialista, per porre fine a questo circolo vizioso, è necessario avere «una governance globale efficace e leader visionari», per risolvere le controversie attraverso la diplomazia, al fine di evitare il ricorso alla forza in ogni occasione. Ma forse lo capisce solo chi ha compiuto sei anni. | |
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| Rassegna politica | Siamo pronti per un Draghi bis? | |
 | Alessandro Trocino
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| | Chi è davvero Mario Draghi?«Un tecnocrate europeista, instancabile profeta delle armi», come scrive Tomaso Montanari sul Fatto, oppure «un uomo che per chiarezza di vedute, di pensiero e di profondità ha una superiore capacità di comprensione di fatti fondamentali dell'Europa e del mondo», come dice Carlo Calenda? Dalla risposta dipende anche quella alla domanda successiva: che ce ne facciamo, con rispetto parlando, di Draghi? Lo teniamo in panchina – mantenendolo solo come consulente speciale della presidente della Commissione Ue - o, peggio ancora, lo pensioniamo, lasciandolo ai suoi discorsi da Cassandra inascoltata? Oppure, ancora, lo rimuoviamo dal ruolo nobile (e soprammobile) di riserva della Repubblica e dell’Europa e gli ridiamo un ruolo all’altezza? Tipo, premier in un Draghi bis o con un incarico di peso nella nuova, futuribile e un po’ irrealistica, Europa unita? Draghi è stato governatore prima della Banca d'Italia, poi presidente della Bce, quindi presidente del Consiglio. Nel 2012 ha lanciato il suo formidabile slogan – «whatever it takes» - che indicava la volontà della Bce di fare tutto il necessario, costi quel che costi, per salvare l’euro dalla speculazione. Di recente, è stato uno dei relatori, insieme a Enrico Letta, dei rapporti sulla competitività dell'Ue e del mercato unico. Questa mattina ha parlato in Parlamento, dove tornava per la prima volta dopo Palazzo Chigi, con la consueta franchezza (qui il discorso integrale). Ha spiegato che l’Europa oggi è sola e che la nostra sicurezza è «messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che, con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione europea». Quando Ursula von der Leyen gli chiese di redigere il rapporto sulla Competitività, dice, «i ritardi accumulati dall’Unione apparivano già preoccupanti». Ed eccoci al Draghi «profeta delle armi», per dirla con Montanari. Cosa dice sulla difesa europea? «Che serve una catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei per lingua, metodi, armamenti e che sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema della difesa continentale». Dunque, una cessione di sovranità. Bisogna «favorire le sinergie industriali europee concentrando gli sviluppi su piattaforme militari comuni (aerei, navi, mezzi terrestri, satelliti)». E il ReArm Europe? Spiega che «sarebbe meglio per l’Europa aumentare i propri investimenti per la Difesa, anziché ricorrere in maniera così massiccia alle importazioni: ne avrebbe certamente un maggior ritorno industriale». In sostanza, smettiamola di comprare dagli Stati Uniti e produciamo noi. Bellicista? Sovranista? O semplicemente ragionevole? Il resto del discorso ricalca le cose che dice spesso, ridurre le bollette per famiglie e imprese, tagliare l’eccesso di regolamentazione che frena l’innovazione digitale, armonizzare i mercati interni. Perché l’ossessione europea per la regolamentazione «ha contribuito a creare delle barriere interne al mercato unico che equivalgono a un dazione del 45% sui beni manifatturieri e del 110% sui servizi». Tutto perfetto, anche se diciamo che dall’altezza astratta di una consulenza teorica le cose appaiono più semplici da fare di quel che sono. Ma la rotta è giusta, e non tutti hanno la lucidità e il coraggio di indicare con nettezza la road map e non solo l’obiettivo finale. Draghi fa entusiasmare Calenda, non da ora, ed è comprensibile. Gli antipatizzanti potrebbero dire che, come il leader di Azione è l’interprete delle oligarchie borghesi e imprenditoriali nazionali, così l’ex presidente della Bce è il punto di riferimento delle oligarchie tecnocratiche europee. Draghi piace molto meno a sinistra (e in particolare ai 5 Stelle, ammesso e non concesso che siano sinistra) e a destra: forse perché mette in dubbio il primato della politica, forse perché, più prosaicamente, rende trasparente ed evidente la pochezza di certa politica. Calenda fa balenare l'ipotesi: farlo tornare a Palazzo Chigi. Un nuovo governo di emergenza nazionale? La prospettiva sembra indigeribile. Sarebbe l'ennesimo fallimento della politica, costretta ad affidarsi ai tecnici, anzi, ai supertecnici. Quanto basta per far allontanare dal voto e dall'impegno un altro segmento della popolazione, già disamorato. E poi, va detto, non è che il governo Draghi si sia distinto per incredibili rivoluzioni. Va anche ricordato, per correttezza, che i governi di grande coalizione sono per definizione paralizzanti, per i veti reciproci. Tutto vero, ma anche che la politica è l'arte del possibile e a un certo punto i conti devono tornare. Il fatto è che la figura di Draghi si staglia netta per superiorità, non solo tecnica. Anche tenendosi lontani dalla venerazione un po' stucchevole che qualcuno gli ha tributato, è vero che ci sono pochi uomini che conoscono come lui la situazione italiana e il contesto europeo. Proviamo a fare una simulazione di scenario, un gioco, naturalmente, come tutti gli scenari. Il partito di Meloni potrebbe a un certo punto essere logorato, come spesso accade a chi è al governo, e quindi perdere presa nell'elettorato. Matteo Salvini, poi, potrebbe imbizzarrirsi, come ha fatto più volte in passato e decidere di mollare l'alleato, sacrificandolo sull'altare della sua leadership e di qualche voto in più. Il governo si troverebbe in alto mare. A quel punto, si volgerebbe lo sguardo all'opposizione. Lì la situazione è altrettanto complessa. Giuseppe Conte pare irriducibile a ogni alleanza con il Pd.È vero che la sua flessibilità è nota, e dunque potrebbe decidere di accordarsi con Elly Schlein in extremis, ma è anche vero che la guerra aperta con i dem difficilmente provocherebbe poi un entusiasmo unitario degli elettori. E dunque, anche dopo un voto anticipato, potremmo trovarci nella paralisi, con i due poli disgregati e incapaci di trovare una maggioranza. A quel punto, ci si troverebbe impantanati nel nulla. Non una bella situazione, vista anche quella dell'Europa. Unico modo per risorgere, un bel governo di unità nazionale. O un governo tecnico, o come lo vogliamo chiamare. Chi meglio di Draghi premier bis? E chi lo sosterrebbe? Una coalizione possibile potrebbe includere ovviamente i centristi, rivitalizzati dall'impasse, in tutte le loro fantasiose declinazioni, il Partito democratico (con o senza Schlein) e Forza Italia. Non ci sarebbero di sicuro la Lega e il Movimento 5 Stelle. Quanto a Fratelli d'Italia, Meloni potrebbe farsi da parte (modello Cincinnato, anche se è difficile da credere) e acconciare il suo partito a un periodo di purgatorio draghiano. Fantapolitica, certo. Perché probabilmente non succederà nulla di tutto questo. Salvini continuerà a lucrare consensi alzando la voce ma senza rompere. Il governo resisterà ai flutti, mentre l'opposizione si sfarinerà nell'eterno dualismo. E Draghi continuerà a parlare, vox clamans nel deserto delle idee e soprattutto nell'inerzia di troppi:«Nessuno sa cosa sia la cosa perfetta da fare, ma facciamo qualcosa». | |
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| La Cinebussola | «Gioco pericoloso», Elodie femme fatale | |
 | Paolo Baldini
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| | L’attrice non vale (per ora) la popstar. Ma forse è solo questione di tempo. Se guardate con attenzione, il thriller psico-antropologico Gioco pericoloso è come un occhio di bue puntato su Elodie: presenza magnetica, da femme fatale vecchia maniera, indossatrice di incubi e vestiti di lusso. Come in Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa, dove era una donna di mafia contesa tra i boss di due cosche, orienta il pathos dando vigore a un film che soffre di momenti esangui e atmosfere svenevoli, come certi noir italiani Anni Settanta, con fantasmi, visioni, brutti sogni e molta, molta pioggia, lavacro di vizi nascosti. Qui dunque Elodie è Giada, ballerina in procinto di realizzare il suo primo spettacolo, ma inseguita da un passato misterioso. Ora Giada fiammeggia di passione, ora cede allo sgomento: la vediamo piangere sotto la doccia e intuiamo subito che dietro le apparenze c’è qualcosa che non va. È la moglie devota di Carlo Paris (Adriano Giannini), critico d’arte arcifamoso, mecenate delle avanguardie, adesso scrittore di bestseller sul punto di vendere il suo romanzo più controverso per un adattamento televisivo, ma in piena crisi creativa, vittima consapevole e rammaricata della sindrome della pagina bianca. Carlo vive in una villa bunker isolata nel verde di Sabaudia, sulla costa laziale. A una mostra conosce uno pseudo artista bizzarro ed empatico che si fa chiamare Peter Drago (Eduardo Scarpetta): barba, codino, idee decise ma scombiccherate. I due entrano presto in confidenza: Drago fa ubriacare Carlo e prende in consegna la sua automobile per riconsegnargliela il giorno seguente. Un espediente per farsi ospitare dalla coppia: lui divertito, lei recalcitrante. Drago installa un atelier in cantina, fa opere choccanti, coinvolgendo mamma e papà, sconcerta gli amici di Carlo, e comincia a lanciare segnali inquietanti, trasformandosi in uno stalker che rovina la vita della coppia anche più della macabra storia che viene dalla villa vicina: una ragazza svanita nel nulla la cui presenza sembra tuttavia sopravvivere nella casa abbandonata. Attenti al doppio finale, un vero colpo di mano narrativo che ovviamente non si può rivelare. Il regista e scrittore Lucio Pellegrini, astigiano, 59 anni, è un veterano del cinema, da E allora mambo del 1999 a War – La guerra pericolosa del 2023, ma molto attivo anche in tv. Per il suo Gioco pericoloso, si affida a una trama triangolare e piuttosto prevedibile, si tiene in equilibrio tra il design degli ambienti e i sentimenti deformati dei suoi protagonisti e cita i film nordici della ruggente polemica sull’arte come The Square di Ruben Ostlund. Il suggerimento è: attenti ai vicini di casa che danno di matto. Alla fine, però, tutto si riduce a una love story tossica, al testa a testa tra due uomini per una ex badgirl che aspira all’indipendenza e al riscatto. Resta da dire che Adriano Giannini doma con mestiere il suo scrittore inquieto, egoista e troppo preso di sé, mentre Scarpetta è uno stalker davvero improbabile che non riuscirebbe a convincere neanche il più frettoloso dei detective. Frasi celebri. Rivolto a lei: «Attenta, Giada, posso diventare molto cattivo». Rivolto a lui: «Tu non sei un artista perché non conosci il dolore». Capito? GIOCO PERICOLOSO di Lucio Pellegrini (Italia, 2025, durata 95’, Vision Distribution) con Adriano Giannini, Elodie, Eduardo Scarpetta, Elena Lietti, Tea Falco, Iaia Forte Giudizio: 3 su 5 Nelle sale | |
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